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"Istituzionalizzazione del boicottaggio commerciale"

Ascoli Piceno | "Una proposta di delibera verso gruppi industriali e singole imprese che hanno delocalizzato i loro impianti di produzione in paesi che non aderiscono alle convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro"

di Carlo Cannella*

Ho sempre creduto, contrariamente ai sostenitori più agguerriti del libero mercato, che la politica abbia il diritto, e a volte perfino il dovere, di interferire con il sistema economico. Di assumersi, cioè, precise responsabilità. D’altro canto, di fronte alla grave crisi occupazionale che il nostro territorio sta subendo, al progressivo smantellamento del suo sistema produttivo, allo svilimento delle sue risorse umane, chi ha ancora il coraggio di chiudere gli occhi e fare finta di niente? La gente che lavora è preoccupata per il proprio futuro, la teoria della mano invisibile non è più sufficiente a rassicurarla. Giustamente comincia a pretendere delle risposte concrete. Cosa fare, dunque?

A mio modo di vedere esistono due ordini di problemi. Il primo riguarda le piccole e medie imprese che non riescono ad essere competitive nel mercato globale. Non riuscendo ad ottimizzare i loro sistemi di produzione, né a puntare con decisione sulla qualità e sull’innovazione tecnologica, vivono da qualche tempo in uno stato di continua precarietà. Come se non bastasse, nuove nubi si stanno addensando all’orizzonte dall’inizio di quest’anno. La fine del regime di vincoli sulle importazioni di prodotti tessili e calzaturieri cinesi, infatti, conseguenza degli accordi che hanno permesso all’ex Impero celeste di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, metterà in serio pericolo la già difficile sopravvivenza delle imprese locali del settore. Verosimilmente assisteremo in poco tempo a una vera e propria invasione di prodotti “made in China” a basso costo, alla quale sarà obiettivamente difficile far fronte.

Il secondo problema riguarda più direttamente la politica dei grandi gruppi industriali, che in nome della massimizzazione dei profitti hanno preferito delocalizzare gli impianti di produzione nei paesi in via di sviluppo, paesi che generalmente non aderiscono alle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, cioè a quell’insieme di regole che perseguono la promozione della giustizia sociale e il riconoscimento universale dei diritti umani nel lavoro.

In entrambi i casi a pagare è la gente che lavora, sia nei paesi senza costi sociali e senza welfare, sia in quelli caratterizzati da una progressiva affermazione di un vero e proprio “diritto del lavoro”. Nel primo caso lo sfruttamento si concretizza con modalità che un po’ ingenuamente credevamo non più accettabili nelle società moderne: mobilità selvaggia, utilizzazione della manodopera minorile a basso costo, orari di lavoro massacranti, condizioni di vita precarie, assenza di ogni diritto sindacale. Nel secondo caso si materializza invece attraverso il ricatto dei gruppi industriali, cioè nella scelta di non investire in paesi i cui governi non dirigono con decisione i loro sforzi verso l’attuazione di riforme che riducano i diritti dei lavoratori e la sicurezza sociale. Il potenziale di ricatto che è implicito in questa forma di dominio, la minaccia cioè di non investire nei paesi che perseguono la promozione della giustizia sociale e difendono i diritti dei lavoratori, perfeziona la logica dell’agire economico: non investire, dire sempre e ovunque no, senza per questo dovere alcuna spiegazione pubblica. E’ questa oggi la leva centrale degli attori dell’economia globale.

Di fronte a una realtà tanto cruda è giunto forse il momento di chiederci se esiste un modello di contropotere rispetto al capitale che agisce su scala globale. Io credo di si, io penso che esista. E’ il contropotere dei movimenti sociali, che si richiama alla figura del “consumatore politico”. Infatti, la decisione di comperare può sempre e ovunque trasformarsi in una scheda elettorale con la quale l’acquirente dà o nega il proprio assenso alla politica dei gruppi industriali. Alla risorsa di potere del non-investimento, propria delle multinazionali, corrisponde , in un certo senso, la risorsa di potere del non-acquisto, della quale dispongono i singoli, ma anche, e soprattutto, i movimenti transnazionali di consumo e boicottaggio. Per il capitale mobile è fatale che nei confronti di questo crescente contropotere dei consumatori non sia possibile alcuna controstrategia

E poiché un’economia rispettosa dei diritti e della dignità delle persone non può prescindere dalle regole e dalle riforme che lo Stato, ma anche gli enti locali, possono adottare, chiederò l’impegno del sindaco e della giunta comunale affinché vengano messe in atto tutte le iniziative possibili per realizzare e sostenere un vasto movimento di opinione che istituzionalizzi il boicottaggio dei gruppi industriali e delle singole imprese che hanno delocalizzato i loro impianti di produzione, nonché quello relativo ai prodotti fabbricati in paesi che non aderiscono alle convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro.


*consigliere comunale prc

07/01/2005





        
  



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