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Il seme geniale della follia domenica 25 marzo a In Art

San Benedetto del Tronto | Interesse, curiosità e partecipazione domenica 25 marzo a In Art per l’originale serata sul tema del rapporto tra follia, creatività e linguaggio.

di Elvira Apone

ph. Assunta Cassa

Domenica 25 marzo, al Medoc di San Benedetto del Tronto, nell’ambito della rassegna In Art, organizzata dall’associazione culturale Rinascenza con la direzione artistica di Annalisa Frontalini insieme a Paolo Soriani, Federico Sabatini, Teresa Prudente ed Enrico Terrinoni, docenti universitari, saggisti e traduttori, hanno parlato di follia, creatività e linguaggio in tre grandi autori della letteratura inglese modernista: Virginia Woolf, James Joyce e Samuel Beckett. Dopo la consueta pausa per la cena, l’attore Gianluca Marinangeli ha proposto al pubblico di In Art il monologo “L’uomo del coniglio”, scritto dalla drammaturga uruguaiana Ana Magnabosco e tradotto in italiano dall’attrice, insegnante, regista e produttrice teatrale Monica Menosse Hutton, che lo ha introdotto fornendo anche alcuni cenni sulla drammaturgia uruguaiana, con particolare riferimento alla poetica che sottende le opere della Magnabosco, in cui spesso ricorre il tema della follia, filo conduttore della serata. Molto gradito è stato l’intervento di Mimmo Minuto, uno dei più importanti organizzatori di incontri letterari, titolare della libreria indipendente La Bibliofila di San Benedetto e presidente dell’associazione culturale “I luoghi della scrittura”, con la cui collaborazione è stato organizzato questo evento.

Non era facile parlare di un tema così complesso e variegato come la follia, soprattutto in autori in cui questa ne permea le opere sia dal punto di vista tematico, sia da quello stilistico. E non era facile farlo in poco più di un’ora e in modo informale, come se si stesse conversando tra amici. Eppure, avendo avuto personalmente il piacere e l’onore di moderare questo incontro, la sensazione è stata proprio questa: di dialogare con dei vecchi amici che, in modo spontaneo e privo di orpelli, hanno messo a disposizione di tutti le loro conoscenze, le loro passioni e le loro esperienze; che hanno saputo raccontare, con le uniche parole possibili, la follia, o la non follia, in tre scrittori la cui sensibilità umana ed artistica ne ha plasmato irreversibilmente e memorabilmente l’opera. Come ha subito sottolineato Teresa Prudente, è alquanto fuorviante ricondurre sempre e soltanto ai fatti biografici i temi trattati da un autore e, per quanto questo sembri assai normale in Virginia Woolf, che ha vissuto in prima persona l’esperienza della depressione e, dunque, di uno stato mentale alterato, è anche vero che nei suoi scritti ha affrontato tanti argomenti, proprio perché ha messo al centro la mente umana, in tutta la sua verità e falsità, in tutta la sua multiforme realisticità. Non esiste nulla di più reale, infatti, del pensiero, di quel flusso di idee e di emozioni che tanto Virginia Woolf quanto James Joyce hanno saputo tradurre attraverso una scrittura illuminata, illuminante e innovativa. Una scrittura che, sempre a proposito della Woolf, come ha ben spiegato Teresa Prudente, non è soltanto il risultato di una lotta disperata con se stessa, ma è principalmente una necessaria e catartica terapia. Una cura che, ha aggiunto Enrico Terrinoni, è stata anche per Joyce fondamentale, ma non soltanto per se stesso, che pure aveva vissuto da vicino la malattia mentale attraverso la figlia Lucia, ma soprattutto per gli altri, per tutti quei suoi potenziali lettori che proprio in quella plurivocalità che caratterizza i suoi scritti, in particolare l’Ulysses e il Finnegans wake, possono ritrovare la propria voce. Ed è proprio questa valenza plurisemica l’aspetto più complesso e, al tempo stesso, più affascinante, dell’opera di Joyce, che rimanda a quei meccanismi mentali, percettivi e sensoriali estremamente difficili da rendere in una traduzione. Ma quella dell’Ulisse di Terrinoni, che ha dato nuova linfa vitale a un testo che è stato spesso visto come un “mostro” di cui temere e che, come lui stesso ha scherzosamente affermato, sembrava addirittura una “follia” ritradurre, è un mirabile esempio di resa di un’opera colossale in cui, come ha scritto Samuel Beckett a proposito di Joyce nel suo saggio “Work in progress”: “la forma è il contenuto, il contenuto è la forma”. Bellissima e significativa, a questo proposito, è la citazione di Beckett sul compito dell’artista fatta da Federico Sabatini: “to find a form that accommodates the mess, that is the task of the artist now”, “trovare una forma che dia alloggio al disordine, questo è ora il compito dell’artista”; in un mondo disgregato e ormai privo di valori in cui domina il caos dell’incomprensione, Beckett è riuscito a comunicare questo senso di incomunicabilità attraverso un linguaggio che è solo all’apparenza privo di significato, ma che, in realtà, rivela tutta la disperazione dell’uomo mentalmente malato perché ormai incapace di comunicare con gli altri. La malattia mentale, ci ha ricordato sempre Federico Sabatini, è una costante nella vasta produzione di Beckett, sia nelle sue opere teatrali che nei romanzi, come, ad esempio, in “Murphy”, in cui il protagonista, che lavora in una clinica psichiatrica, incontra un paziente schizofrenico, con cui alla fine giocherà una partita a scacchi.

Ma che cos’è, in realtà, la follia? O, meglio, esiste effettivamente una normalità? Questi tre grandi scrittori sembrano risponderci di no, invitandoci a riflettere sul fatto che il mondo esteriore esiste nel momento e nel modo in cui la nostra mente lo percepisce. Dunque la follia, come ha affermato Teresa Prudente, è solo una diversa maniera, sicuramente più amplificata, di percepire la realtà in cui viviamo, di affrontare, come ha ribadito Federico Sabatini ricordando le parole della Woolf, quel lungo marciapiede da cui possiamo sprofondare nell’abisso o che, al contrario, possiamo percorrere senza cadere, grazie all’arte e alla comunicazione: “communication is health”, “la comunicazione è salute”. Una grande lezione di vita, ha concluso Sabatini, abbiamo ricevuto in eredità da questi tre artisti, che hanno saputo usare il linguaggio fino ai limiti delle sue potenzialità espressive, trasformando la sofferenza e l’insanità in un coraggioso e rivoluzionario atto creativo.

La follia è sensibilità, creatività, ingegno, fuga dalla realtà, illusione, sogno, speranza, immaginazione. Questo sembra suggerirci la drammaturga uruguaiana Ana Magnabosco nella pièce teatrale “L’uomo del coniglio” che, dopo il debutto in prima assoluta al teatro di Capodarco di Fermo il 24 e il 25 febbraio di quest’anno, l’attore fermano Gianluca Marinangeli ha interpretato domenica per il pubblico di In Art. Come ha spiegato Monica Menosse Hutton, le opere della Magnabosco, come quelle di altri drammaturghi uruguaiani contemporanei, sono caratterizzate da uno stile naturalista lievemente intriso di magia, dove molti elementi realistici vengono trasfigurati attraverso la fantasia e il misticismo. I suoi personaggi, come il protagonista di “L’uomo del coniglio”, vivono in una sorta di estasi folle attraverso la quale si allontanano dalla dura e triste realtà in cui vivono viaggiando con la mente nello spazio e nel tempo per crearsi una nuova illusoria dimensione, in cui la vita perde, almeno momentaneamente, il proprio squallore, per diventare luogo perfetto in cui proiettare i propri sogni, le proprie speranze, i propri ideali.

Con un’interpretazione misurata, calzante, delicata e densa di pathos, domenica sera al Medoc, Gianluca Marinangeli ha regalato al pubblico un personaggio sensibile, tenero, ironico e, al tempo stesso, estremamente reale e credibile, pur nella sua apparente follia, riuscendo a ritagliare con verità e sincerità la sua disperazione, che lo rende a tratti fragile e vulnerabile, a tratti forte e sicuro, fino al suo grido finale “Abbiamo diritto all’Allegria”, con cui proclama la vittoria dell’ottimismo e della forza di volontà sulle avversità della vita. Il suo dialogo con Peppino che, però, non si vede e non si sente parlare è, in realtà, un monologo che, da un lato, riesce a creare una comunicazione più diretta con il pubblico, che finisce quasi per immedesimarsi nel suo interlocutore e, dall’altro, svela e rivela il personaggio di Catalino in tutto il suo altalenante flusso di pensieri e sentimenti, che lo portano, tra riso e pianto, illusione e delusione, dubbi e timori, a cercare una via d’uscita alla condizione di miseria in cui lui e l’amico si trovano a causa della perdita del lavoro, che sia essa, come ha pensato Peppino, un allevamento di conigli o, come lui stesso propone, uno spettacolo dell’Allegria. E così anche il linguaggio sembra seguire le oscillazioni della sua mente delirante: da semplice mezzo di comunicazione e di scambio verbale, diviene una meccanica e fredda ripetizione di frasi, quando Catalino recita le definizioni delle parole del dizionario che ha imparato a memoria, per trasformarsi poi in un importante strumento di affermazione del proprio diritto a essere felice e, dunque, della propria dignità umana. Un’umanità che Gianluca Marinangeli ha saputo brillantemente incollare addosso a Catalino, grazie alla naturalezza e alla disinvoltura con cui si è calato in un personaggio poliedrico e sorprendente, un personaggio che ti entra nel cuore e che non si può fare a meno di amare.

 

 

28/03/2018





        
  



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