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Vero. E’ teatro!

Pedaso | Ascanio Celestini racconta il teatro a sua immagine e somiglianza


Celestini
piace. Soprattutto ai fermani. E si è visto dal tutto esaurito ogni volta che l’affabulatore romano è stato nei nostri teatri. L’ultimo volta? Domenica pomeriggio a Pedaso. Perché piace tanto? Perché il pubblico si diverte. Non gli sembra di stare a spiare un dramma intimo di personaggi lontani. Con Celestini sul palco, il pubblico smette di essere pubblico per tornare ad essere quello che è: persone attorno a un canta storie.

Scemo di guerra parte dai racconti che hai ascoltato da piccolo. Come nasce la scelta di portare questi racconti su un palcoscenico?
Per la verità, io ho iniziato non pensando al teatro, ma pensando di fare l’antropologo. La mia passione era quella de avvicinarmi alla ricerca sul campo. Quindi un lavoro di interviste, raccolta di storie, di racconti, e tradizione orale. Nel momento in cui si va a raccogliere del materiale di tradizione, come i canti o racconti personali… un antropologo pensa ad un lavoro d’analisi, poi però questo materiale, che è la cosa più interessante, rimane lì. Rimane il materiale registrato che non serve più a nessuno. E invece è quella, la cosa più bella, più interessante. E’ la vitalità che c’è nel racconto. Allora a me è sembrato abbastanza naturale, se non più naturale possibile, spostare questo materiale orale, che sta all’interno della tradizione e del mondo domestico, in un’altra oralità che è quella del teatro. E’ una forzatura, come quelli che fanno, che ne so! I Tenores di Bitti che vanno in tournee in tutto il mondo mentre prima cantavano solo in Sardegna, e cantavano solo la settimana santa. Però io credo che sia possibile oggi fare questa cosa. Ed è possibile perché s’è perso il patrimonio orale. Perché durante la settimana santa, pure in Sardegna ci stanno i boyscout con la chitarra e non i Teneros che cantano. La cultura popolare non è più una cultura separata, ma è in parte scomparsa e in parte invece s’è mescolata alla cultura globalizzata. Proprio perché è successa questa cosa che noi possiamo attingere a quel patrimonio e considerandolo non più come patrimonio solo di quelle persone lì. Ma occorre iniziare a lavorarci sopra così come lavoriamo su Vivaldi, su Verdi nel caso della musica, o Shakespeare nel caso del teatro.

Porti in scena una tradizione orale che è parte del patrimonio della gente comune. Però questo patrimonio conserva originalità e creatività, pari e della stessa qualità di opere più auliche, più importanti che magari tutti noi studiamo a scuola. Si può parlare di forme d’arte anche per questo patrimonio di cultura popolare?
Ma sicuramente si! Cioè voglio dire che poi in realtà è sempre stato così. Shakespeare lavorava su storie che probabilmente sono state prese dai racconti veneziani che provenivano da una tradizione orale. Una volta in termini marxisti si parlava di cultura dominante e cultura dominata, o come diceva Gramsci culture subalterne e culture egemoni. In realtà non è che ci sia una separazione netta: il muratore c’ha la sua cultura, l’architetto ce ne ha un’altra e non si incontrano. E’ una semplificazione per cercare di capire. Le culture sono delle reti, per cui ci sono sempre delle reazioni. Io credo che però oggi soprattutto nel teatro sia fondamentale abbandonare Shakespeare per questa cosa qua: per il racconto della mia vicina di casa. Per un fatto semplicissimo. Perché Shakespeare è morto 4 secoli fa. E se c’è una cosa interessante nel teatro oggi, è che la persona che sta in scena è una persona viva che parla ad altre persone vive. E secondo me per questo non vale la pena di tirare fuori dalla tomba i morti. Shakespeare ha detto cose straordinarie che rimarranno nei secoli, però la mia vicina di casa dirà pure cose meno interessanti ma senz’altro più vive. Più vicine a me. Le piramidi sono un capolavoro. Però io vivo in una casa popolare. Oggi l’architetto e il geometra costruiscono le case popolari. Fanno schifo, ma è quello che ci riguarda. Brecht quando scriveva la poesia Tempi duri per la lirica diceva che “anche a me piacerebbe parlare dei fiori, però c’è Hitler che è il capo della Germania”. C’è un’urgenza oggi che nel teatro deve assolutamente passare attraverso la responsabilità della persona. Il teatro non può più stare dietro alla finzione del personaggio, della scena. La finzione mi sta bene però la finzione è del racconto. Io racconto anche storie finte, mica è vero che la mosca ha parlato a Primo! Però è veramente io che la racconto.

Parti dal racconto di una persona poi quando lo metti in scena, quanto rimane di vero e quanto c’è di tuo?
Io ri-racconto come Ascanio Celestini. Non mi metto li e dico: adesso racconto una bella storia. Io sto li che penso: in che maniera posso raccontà io sta storia? Poi è possibile che altre persone possono raccontare la mia storia. Per esempio lo spettacolo Fabbrica l’ha messo in scena uno in Belgio. Però per dire, già lui è uno che ha lavorato in fabbrica per tanti anni e suo padre è morto in fabbrica. Io credo che così si dovrebbe fare teatro. Non posso fa Amleto soltanto perché è bello. Io non vivo in una città solo perché è una bella città, se no tutti staremmo a Venezia, a Roma… noi viviamo nei posti dove viviamo, perché sono i nostri, perché c’abbiamo le radici. Ci sono milioni di motivi perché una vita di una persona va raccontata e non perché è bella. Per questo io credo che l’attore nel momento in cui va in scena con qualcosa ci va perché c’ha un legame profondo con questa cosa. E io credo che l’attore come persona abbia un legame profondo soprattutto con la sua storia. Anche se uno non c’ha una storia con tutta la famiglia che canta con le tarantelle ecc … ma la sua storia è vivere nelle case popolari ed avere il fratello tossico …anche quella è una storia! Quello è il suo mondo, la sua cultura.

La storia la rielabori a modo tuo, la verità diventa relativa?
La verità della storia diventa relativa. Certo ci sono delle cose sulle quali bisogna stare attenti. Quando dico che i russi so’ arrivati a Roma cerco di dirlo in un maniera che sia più chiaro possibile che è una fregnaccia. Cerco di distinguere un po’ da quello che considero veramente accaduto da quello che considero invece invenzione. Detto questo, quello che è vero senz’altro è che io sto là. E non me la sento de entrà in scena io con un altro atto e dire: “Beh possiamo parlare, non c’è nessuno”, quando ce so’ mille persone del pubblico che giustamente me potrebbero di’: “A signor nessuno, amo pagato il biglietto stiamo qua”.

Nei tuoi racconti a volte sei un po’ sacrilego, per esempio nella Pecora Nera elimini l’inferno e il paradiso. Qui in Scemo di Guerra resuscitano i morti. Ti diverti e giocare con questi temi? Considero il patrimonio della cultura cattolica, con il quale sono cresciuto, come un grande patrimonio a cui attingere. Anche folkloristico. Penso che sia un patrimonio straordinario, in cui mettere le mani senza la paura di dire cose che danno fastidio a qualcuno. Perché vojo di, non se po lascia’ il patrimonio della cultura cattolica ai cattolici. Non può parla de Cristo solo chi ce crede. Perché Dio come essenza metafisica ultraterrena esiste solo per chi ce crede ma Dio come personaggio della cultura mondiale esiste per tutti. Esiste pure Allah, Maometto, la befana… non esiste nessuno de questi qua, però sono dei personaggi straordinari e per me vale la pena metterci le mani dentro.

17/01/2006





        
  



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