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L’Italiano di Bagdad assassinato

San Benedetto del Tronto | “La simpatia sfoderata dai Baldoni è come l'orgoglio che sguainò Quattrocchi in faccia ai suoi carnefici”.

di Tonino Armata

Dopo Fabrizio Quattrocchi, un altro italiano, Enzo Baldoni, muore ammazzato in Iraq ai margini di una guerra, e la sua identità, le sue idee, il suo ruolo non contano perché il suo passaporto lo condanna, perché l'Italia per l'Esercito islamico "è in testa alla lista di coloro i quali si devono combattere e uccidere". Si parla d'immagini "agghiaccianti" nel video in cui gli assassini avrebbero filmato la loro esecuzione. Una crudeltà anch'essa ideologica, di cui i rapitori hanno già fornito prova quando hanno assassinato nei mesi scorsi due ostaggi pachistani, e persino Al Jazeera si è rifiutata di trasmettere quelle immagini.

Uno così simpatico non l'avevano ancora rapito. La simpatia italiana è una risorsa che, chissà avrebbe potuto spiazzare persino i terroristi islamici, quella simpatia che alcuni popoli ci rimproverano come "pittoresca", ma che per noi è plasticità, capacità di stare al mondo senza troppo subirlo, in piedi e non in ginocchio. Ed è la stessa simpatia dei due ragazzi che si sono appellati ai rapitori di papà, composti, maturi per la loro età, belli e semplici figli d'Italia che la guerra ha cacciato dentro un'enormità. La simpatia sfoderata dai Baldoni è come l'orgoglio che sguainò Quattrocchi in faccia ai suoi carnefici.

Dopo averlo visto in televisione, credevo fosse impossibile, ammazzare un allegro ragazzone di 56 anni che magari ti spiega come migliorare i tuoi video. Che ti può spiegare come dare più efficacia alla propaganda bellica, come rendere più incisivi e meno truci i messaggi di ricatto. "Siamo italiani e con gli iracheni ci intendiamo", ha scritto Enzo Baldoni. Per la prima volta, in mano ai macellai c'era un uomo leggero come un adolescente, fresco e curioso, un nostro piccolo e gioviale Bruce Chatwin, messo in posa da Al Jazeera per dettare con piglio di grande e soddisfatta professionalità le condizioni impossibili del proprio rilascio.

Guardate ancora il breve video: la disinvoltura non si può imporre con il mitra, e Baldoni si muove, prigioniero di quelle immagini, come si muoveva libero in Iraq. Più che subire, "presenta" la propria costrizione, domina il mezzo, si concede impercettibili smorfie vagamente ironiche, è bravo come un attore consumato. Insomma "buca", sia per predisposizione naturale sia per sapienza.

Baldoni ci piaceva perché era un uomo postideologico, non aveva bisogno d'armature per andare in Iraq, ci andava perché a Bagdad il mondo riduce l'umanità al suo estremo, ci andava perché c'è la sofferenza, c'è il pericolo, ci sono le ferite, il lutti, le gioie, tutti vorticosamente ruotanti attorno alla guerra. Baldoni ci piaceva perché trasfigurava anche la guerra. Altro che "pirlacchione" come abbiamo letto in qualche commento flaccido. Baldoni ci piaceva perché tra tutte le maniere di convivere con la guerra, la sua era l'unica che non riusciva a subirla. Sarà il carattere, sarà la professione, ma in quel video ha dato il meglio di noi italiani, trasformandosi da vittima in regista di uno spot.

Baldoni parlava e noi non sentivamo nulla di quello che diceva, affascinati e incantati del suo lieve cavalcare la tragedia che soltanto nell'inarcamento delle sopracciglia si mostrava come il peso di un dovere che "s'ha da fare per campare". Alla fine Baldoni ci piaceva perché ormai non appartiene più né alla guerra né alla pace, ma appartiene a quell'Italia visionaria, degli artisti, degli scienziati, degli esploratori, degli emigranti, dei missionari, dei volontari, un'Italia che per ogni Marco Polo e per ogni Francesco Petrarca, ha dato mille piccoli, anonimi giramondo alla Baldoni, un'Italia dove "tutto ciò che si rappresenta è diverso da quello che è, dalla realtà che ci sta sotto".

La figura di Baldoni non appartiene alla fauna da sceneggiato televisivo che ci è descritta nei caritatevoli reportage dal fronte: il povero carabiniere, la body guard con famiglia a carico, il buon missionario, l'intrepido giornalista, il coraggioso volontario. La sua storia non offre spunti al piagnisteo da salotto televisivo e, infatti, è stata subito rimossa, già la sera dopo, nell'urgenza delle maratone olimpiche. Baldoni rappresentava qualcosa di ormai inconcepibile nel canovaccio nazionale, un individuo: un libero di coniugare a modo suo la frequentazione con i luoghi comuni della Milano da bere, pubblicità e moda, con l'impegno sociale e la volontà di testimoniare le tragedie del mondo. Una persona in missione in Iraq non per la patria, il partito, l'ideologia, l'azienda o la famiglia ma per se stesso, per cercare di capire "cosa spinge altre persone a imbracciare un mitra". "Voglia di capire" e basta. Non c'è nulla che l'Italia contemporanea abbia meno voglia di capire.

Una destra fondamentalista l'ha etichettato "uno di sinistra", anzi un "no global" come tutto quello che i miseri strumenti culturali non le consentono di decifrare. Nella stupida ossessione dell'appartenenza a tutti i costi, la definizione suona in ogni modo sbagliata. Baldoni era semmai vicino al mondo di una Milano democratica, assai minoritaria e pure molto attiva. Quella Milano che raccoglie sotto l'etichetta di "società civile" una piccola galassia di esperienze diverse. Ex sessantottini e rari borghesi liberali, vecchi militanti di partito delusi e ragazzi nati dopo il crollo di tutte le ideologie. Individui appunto, spesso critici, ingenui rompiballe sgraditi a destra ma anche a sinistra. Un mondo sospeso tra la nostalgia dell'impegno politico da anni Settanta e una modernissima visione del mondo globale, isolato in patria ma con impensabili legami e contatti con ogni angolo del pianeta.

Il modo migliore per definire Baldoni è "uomo di pace", secondo le parole della figlia, sincere e pulite come la sua faccia. Naturalmente per i fanatici assassini non ha fatto alcuna differenza che il prigioniero fosse lì per fare la guerra o raccontarne il dolore. Nella stessa logica da delinquenti politici, un pezzo di destra non si è vergognato di deridere il "compagno Enzo", donchisciottesca vittima dei propri ideali. Il nemico, per entrambi, non è un essere umano.

La morte di Enzo Baldoni potrà servire a quelli come lui, pieni di dubbi e voglia di capire, che per fortuna non sono così pochi. Per comprendere che in questa guerra del fanatismo (orientale e occidentale) contro la ragione e la civiltà nessuno può chiamarsi fuori, inventarsi un'isola felice, fingere che non lo riguardi.

P.S. Chi leggeva Doonesbury, la formidabile strip americana pubblicata per lunghi anni su Linus, può ben dire di aver conosciuto Enzo Baldoni, che di Doonesbury è stato, ben più che il traduttore italiano, il benemerito scopritore e cantore. Baldoni era coetaneo dei personaggi di Trudeau, e se riusciva a rendere così bene in italiano quel mondo, quel gergo, quella ingenuità e quel cinismo da vecchi hippies integrati, è sicuramente perché aveva condiviso molte delle esperienze e delle illusioni della generazione del Vietnam, delle rivolte universitarie, del successo disincantato.

Poiché in tanti ne hanno sottolineato l'allegria e la generosità, vorrei aggiungere che Baldoni era sicuramente molto intelligente, come dal suo lavoro su Doonesbury. E intelligente non solo non vuol dire furbo, ma vuol dire il suo esatto contrario: chi è intelligente non ha bisogno di essere furbo. Gli idioti sì. Idioti, infatti, sono stati alcuni commenti sul suo rapimento e sulla sua sorte, sul suo cosmopolitismo, la sua disponibilità umana, la sua ammirevole mancanza di paura. Idioti e italioti, convinti, da idioti e da italioti, che essere poco furbi sia un difetto e non, come è, una qualità, e soprattutto un punto d'onore.

07/09/2004





        
  



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